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Sbam


Scritto da Rosa Provenzano, autrice del libro Oltre le crepe del cuore

Bianca tornava a casa sempre allo stesso orario, sempre con lo stesso tram.
La quotidianità per lei aveva una sua bellezza: il viaggio, la meta, la gente, ognuno con la propria vita e con le proprie scelte. Anche in tram ognuno faceva la propria scelta: C’era chi decideva di ascoltare la musica, chi di leggere un libro, chi di continuare a lavorare o di studiare.
Poi c’era chi, come lei, sceglieva di guardare fuori dal finestrino; le strade, i palazzi, le persone che scorrevano davanti ai suoi occhi le infondevano serenità. Tutto ciò che vedeva scompariva per non ripresentarsi più nel medesimo modo. La stessa cosa accadeva con i suoi pensieri, andavano e venivano, poi scomparivano e non erano più gli stessi; come le strade e i palazzi, non le appartenevano, scivolavano lontani da lei.
Quando varcò la porta del suo appartamento si sentì scuotere nel profondo da una sensazione di angoscia, come se dietro quella porta chiusa avesse lasciato la gioia e i colori della vita e si fosse addentrata nel grigiore malinconico dell’autunno.
In quel momento si sentì a terra, come una foglia caduta dall’albero.
Era da tanto che non le succedeva di sentirsi così persa, ma quello che era accaduto il giorno prima aveva riesumato il passato e con esso la sofferenza che aveva vissuto.
A passi lenti si avvicinò alla finestra; stava iniziando a piovere.
Le era sempre piaciuto il rumore della pioggia, quel ticchettio tipico e cadenzato, sui vetri delle finestre, dove le gocce continuano a scendere, a inseguirsi, a incrociarsi in un gioco costante e sommesso.
C’erano tanti ricordi legati alla pioggia, alcuni piacevoli, altri amari, sensazioni e pensieri nascosti in ogni singola lacrima del cielo. Ricordi che giungevano all’improvviso come le onde del mare grigio in tempesta. Ricordi che si affacciavano, scomparivano, tornavano e si intrecciavano, come le gocce che bagnavano i vetri.
Si passò una mano tra i capelli e sospirò profondamente.
Anche quel giorno di tre anni prima pioveva…

“Sbam”
Ricordava ancora il rumore della porta che si richiudeva dietro Filippo che andava via all’improvviso, buttandosi alle spalle ciò che c’era stato fra di loro fino a pochi momenti prima.
Filippo… si conoscevano dai tempi dell’università. Lui era così affascinante e intrigante con i suoi meravigliosi occhi verdi, nei quali si era persa fin dalla prima volta che lo aveva visto. Ricordava come si sentiva impacciata in sua compagnia; poi lui aveva fatto il primo passo e da quel giorno la vita le era apparsa meravigliosa.
Per tanti anni aveva pensato di essere la persona più fortunata del mondo perché accanto a lei c’era Filippo, il suo mondo; un mondo dorato, una vita perfetta arricchita ancora di più dalla nascita di Greta.

Mentre guardava la pioggia bagnare i vetri i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Si girò verso la stanza e con lo sguardo appannato lo rivide lì, come l’ultima volta, seduto sul divano con il cappotto nuovo sulle ginocchia e con una leggera espressione di preoccupazione in viso.

Quel giorno era rientrata trafelata dal lavoro; appena aperta la porta aveva visto prima lui e poi il trolley. “Stava partendo? Per dove? E perché?”
Aveva provato diverse sensazioni che si erano rincorse una dopo l’altra; stupore, terrore e impotenza. Si era fermata di colpo sulla soglia, come se una forza sconosciuta e misteriosa la trattenesse. Non aveva osato andare oltre; il suo cuore aveva iniziato a battere all’impazzata e i suoi pensieri si erano offuscati portando nella nebbia anche la sua voce. In quel momento aveva pensato di scappare, nascondersi, chiudere quella porta e riaprirla nuovamente, perché forse si era trattato solo di un sogno… o di un incubo.
“Sbam”
Sì, ricordava il rumore della porta che si richiudeva, mentre lui trascinava con sé il trolley che aveva preparato per giorni di nascosto.
“Sbam”
Un rumore assordante, che era riecheggiato per tutta la stanza, che era rimbombato nella sua mente, che si era abbattuto sulla sua anima e aveva distrutto la sua vita.
Ricordava le parole di Filippo come se le sentisse ancora risuonare tra quelle pareti; parole pronunciate a basse voce e urlate, velenose e malvagie, cattive e mortali che erano penetrate nella sua carne lacerandola.
“Tra noi è finita da tempo… siamo così diversi e così distanti, ormai. La verità è che non provo più nessuna attrazione per te, le stesse cose che prima mi piacevano, la tua voce, il tuo sguardo, il tuo modo di toccarmi, ora mi danno fastidio… Forse non è solo colpa tua, forse anche io sono cambiato. Ho bisogno di qualcosa di diverso, di più intenso e coinvolgente… di sentimenti profondi che con te non provo più… Forse avrei dovuto farlo prima, non l’ho fatto per Greta, ma adesso ha 18 anni, è abbastanza grande per cavarsela da sola e per capire… Spiegale tu quello che è successo tra di noi… per me sarebbe troppo difficile… Dille che le voglio bene …”
“Sbam”

E poi il silenzio, e poi il buio, e poi il niente.
Non ricordava le parole che aveva detto lei, forse perché non ne aveva pronunciate.
Ricordava, però, che si era accasciata a terra per un tempo indefinito, senza forze, inerme, aveva avvertito solo il sapore amaro delle proprie lacrime e insieme a esse anche i pezzi della sua vita, i ricordi, le immagini che scivolavano via sul pavimento.
Come si era sentita in quei momenti? Cancellata, sola, disperata, vuota, con la sensazione di aver subito una violenza, perché essere abbandonati è una violenza e chi abbandona è crudele e perfido.
Cos‘era successo dopo? Mentre il buio invadeva la stanza si era rialzata, era andata in bagno e con addosso i vestiti era entrata nella doccia. Aveva fatto scorrere l’acqua fredda perché voleva liberarsi da quella sensazione di letargo, non tanto per sé stessa, ma per la figlia.
Cosa aveva detto a Greta quando era rientrata? Non lo ricordava più, ma non avrebbe mai dimenticato l’espressione di incredulità che aveva letto sul suo volto, diventata poi dolore, e infine disperazione. Era toccato a lei consolarla, dirle che tutto sarebbe tornato come prima, che era solo un momento di confusione, come capita a tanti. Tutto si sarebbe sistemato, come sempre.
Greta aveva chiamato suo padre al cellulare più volte quella sera, aveva lasciato dei messaggi. Lui non aveva risposto. L’indomani era andata a cercarlo pure in ufficio, ma non lo aveva trovato; le dissero che aveva chiesto tre settimane di ferie: nessuno, però, sapeva dove fosse.
Greta per giorni era rimasta rinchiusa nella sua stanza immersa nel suo dolore, mentre il cellulare dall’altro capo squillava senza risposta. Era toccato a Bianca consolarla e ricacciare indietro lacrime e dolore.
Quella risposta arrivò dopo cinque giorni, solo poche parole scritte su WhatsApp.
“Scusa se non rispondo, ma per ora non posso, sarebbe troppo difficile per entrambi. Verrà zio Giulio e spiegherà tutto a te e alla mamma. So che capirei.”

“Sbam”
Sì, ricordava ancora il rumore della porta che si richiudeva, dopo che Giulio rattristato e dispiaciuto era andato via.
Ricordava le parole che aveva pronunciato con lo sguardo basso e la voce rotta dall’emozione “Mio fratello è un vigliacco… non ha avuto il coraggio di dirvi la verità… Come non vorrei essere qui in questo momento… C’è un’altra donna nella sua vita, da circa otto mesi, si chiama Naomi, è più giovane di lui di almeno 20 anni… insegna pilates, l’ha conosciuta in palestra… aspetta un figlio. In questo momento sono in vacanza su un’isola di cui non ricordo il nome. Progettava da tempo di andare a vivere con lei, hanno già affittato un appartamento… Mi dispiace, tu e Greta non meritavate tutto questo… ho cercato di farlo ragionare, ma è completamente impazzito… “
Greta, distrutta, era tornata a rinchiudersi nella sua camera; lei non aveva osato seguirla, non avrebbe saputo cosa dirle, doveva prima pensare cosa dire a sé stessa.
Perché Filippo si era allontanato da lei? Era colpa sua? In che cosa aveva sbagliato? Perché non si era accorta che qualcosa stava cambiando in lui? Aveva fatto finta di non capire? Aveva forse nascosto la testa sotto la sabbia come gli struzzi per non vedere quello che accadeva intorno a lei? Forse sì, ma non poteva continuare a comportarsi come uno struzzo perché la realtà era ben diversa.
Una realtà difficile da accettare: Filippo insieme a un’altra. Filippo che diceva “Ti amo” a un’altra. Filippo che stringeva tra le sue mani con passione, un’altra.
Aveva immaginato in quei momenti e per tanto tempo ancora, il loro primo incontro, il loro primo bacio, le notti che avevano trascorso insieme l’una nelle braccia dell’altro, le parole che si erano detti.
Tutto era accaduto alle sue spalle.
Lui e l’altra. Lui, falso, infedele, insensibile e malvagio e l’altra, perfida strega, spudorata, immorale e sleale. Quanta rabbia e quanto odio aveva sentito esplodere dentro di sé per giorni, mesi e anni pensando a loro.
Come si era sentita? Devastata, annullata, spezzata, come Monique, la donna del romanzo di Simone de Beauvoir che aveva letto qualche mese prima dell’abbandono. Forse come presagio.
Aveva vagato per la casa, per le strade della città e per i corridoi della scuola dove insegnava, con la testa bassa, umiliata, frantumata, ridotta a niente, senza alcun valore perché è così che Filippo l’aveva trattata, come un vecchio oggetto che non serviva più.
Greta aveva deciso di non vedere più suo padre che, preso dalla sua nuova vita, si era dimostrato insensibile verso la sofferenza della figlia.
L’unica volta che aveva accettato di vederlo, dopo qualche mese, invece di chiederle come stava, Filippo le aveva parlato per tutto il tempo di Naomi, di quanto fosse bella, divertente e intelligente. Le aveva pure mostrato una sua foto, voleva che si conoscessero, era sicuro che sarebbero andate d’accordo. Greta, a un certo punto, sconcertata e schiacciata dalle sue parole, si era alzata, gli aveva buttato addosso un bicchiere d’acqua ed era scappata via dal bar.
“Non è mio padre, non è rimasto niente dell’uomo che era il mio eroe” le aveva detto con le lacrime agli occhi quando era tornata a casa: “Mio padre è morto.”
Lei, invece, lo aveva rivisto circa dopo quattro mesi, i primi di giugno. Stava ritornando a casa e lui era davanti al portone del palazzo. Con un sorriso luminoso le era andato incontro e le aveva detto: «Stamattina è nato Giulio, il fratellino di Greta. Ho provato a chiamarla, ma non risponde. È suo dovere conoscerlo… deve farlo per me e per Naomi. Non glielo chiederei se non fosse così importante, sono sicuro che tu saprai convincerla».
Lei aveva infilato la chiave nella serratura e poi lo aveva guardato negli occhi. Aveva percepito qualcosa dietro quel sorriso apparentemente felice e mentre apriva il portone gli aveva detto: «Deve farlo per te e per Naomi? E voi che cosa avete fatto per lei?… Ah l’avevo quasi dimenticato… Avete solamente distrutto la sua vita e la mia. Cosa vuoi che sia… Quando sei andato via mi hai detto che Greta è abbastanza grande per cavarsela da sola ed è quello che sta facendo. Anche tu sei abbastanza grande, i problemi con la tua Naomi, puoi risolverteli da solo.
Che c’è? Hai paura che finisca com’è finita tra noi?»
Non aveva aspettato che lui parlasse, aveva chiuso il portone ed era entrata subito in ascensore.
Cosa le aveva dato la forza di andare avanti, di non sprofondare nella disperazione? Greta, sicuramente, lei si era dimostrata forte e decisa. Non poteva cancellare completamente suo padre, ma poteva andare avanti anche senza di lui. Non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di elemosinare il suo affetto o la sua presenza.
Con determinazione si era concentrata sulla sua vita, nello studio, nei suoi sogni e nelle sue ambizioni.
Greta era stata la sua forza, il suo sostegno, il suo rifugio e la sua salvezza.
La loro vita era andata avanti e giorno dopo giorno, mese dopo mese, si erano abituate a quella sedia vuota quando erano a tavola. Nel tentativo di affievolire l’asprezza dei ricordi si erano liberate di qualsiasi cosa fosse appartenuta a lui, le foto, i pochi vestiti che aveva lasciato, le racchette da tennis e la sua odiosa collezione di portachiavi.
Come se bastasse svuotare un cassetto per non soffrire più.
La cosa più difficile per lei era stata abituarsi al vuoto nel letto, così pesante da vedere e da percepire; svegliarsi al mattino, girarsi dall’altra parte e vedere il cuscino senza una grinza, questo sì che era stato insopportabile e doloroso.
C’erano stati giorni in cui si era sentita distrutta e aveva dato la colpa a sé stessa, giorni in cui aveva provato odio e rabbia, giorni in cui aveva pensato che la sua vita non avesse più senso. Giorni in cui si era svegliata e aveva fatto uno sforzo sovrumano anche per respirare e notti in cui si era sforzata di non dormire, perché i sogni erano duri e spigolosi e le ferivano il cervello come schegge di vetro. Giorni in cui avrebbe voluto farla finita per non sentire più dolore… sarebbe stato un attimo… un salto nel vuoto dal balcone e avrebbe trovato pace e riposo. Non lo aveva fatto, per Greta.

Si passò una mano sugli occhi, come a voler cancellare insieme alle lacrime, anche i ricordi.

I giorni, i mesi, gli anni… era stato il tempo che passava ad averla aiutata a capire che non poteva vivere per sempre nel rimpianto di ciò che aveva perso, ma che in un modo o nell’altro, avrebbe dovuto coltivare il proprio futuro, o quello che ne restava. Sapeva che doveva farlo, ma non riusciva a trovare il modo, fino a quando non aveva cominciato a pensare di essere destinata a vivere nel dolore per sempre.
E poi, invece, era cambiato tutto quando meno se lo aspettava e in un modo che mai avrebbe immaginato.

Un sorriso radioso comparve sulle sue labbra al pensiero di Luca e i suoi occhi brillarono di una luce intensa.

Era arrivato all’improvviso nella sua vita, senza avvisare, era successo dieci mesi prima. Per il suo quarantottesimo compleanno aveva voluto fare un regalo a sé stessa: una crociera nel Mediterraneo. Non aveva mai viaggiato da sola, c’era sempre stato Filippo con lei, ma sentiva che era una cosa che doveva fare, anche se era sicura che si sarebbe sentita a disagio.
Su quell’enorme palazzo galleggiante, tra i tramonti sul mare e le colazioni in terrazza, aveva conosciuto Luca, un affascinante cinquantenne che l’aveva incantata con la sua gentilezza e con le sue attenzioni. Finita la crociera si era stupita nel rendersi conto che poteva ancora provare emozioni per un altro uomo.
Aveva continuato a frequentare Luca, spinta anche da Greta, e ne era nata una storia dolce, calda, palpitante e passionale.
Luca, con la sua dolcezza e spontaneità era arrivato dritto al suo cuore e si era imbattuto nei suoi pensieri in silenzio, riempiendo quel vuoto che aveva nell’anima e regalandole, così, la serenità perduta.
Insieme a lui aveva scoperto una nuova sé.
La nuova sé dopo Filippo e per lei era stato un piacere conoscerla.
La nuova sé in grado di curare le proprie ferite.
La nuova sé che aveva riscoperto l’amore per sé stessa.
La nuova sé pronta persino ad amare di nuovo.
La nuova sé senza occhiaie e palpebre gonfie per il troppo pianto, ma che si sentiva ancora bella e desiderabile e padrona delle proprie scelte.
La nuova sé che non soffriva più quando si girava dall’altra parte del letto, anche se era vuoto.
Luca era riuscito a liberarla dal passato in cui lei stessa si era intrappolata e insieme a lui aveva scoperto che, a volte, la vita è crudele, ma poi dà sempre l’occasione per risollevarsi.

Si girò a guardare fuori, mentre la pioggia scorreva sui vetri.

Non aveva più rivisto Filippo dal giorno in cui l’aveva aspettata sotto casa per annunciarle la nascita del figlio. Aveva iniziato la sua nuova vita e non aveva più cercato di riallacciare i rapporti nemmeno con Greta… fino a ieri.

“Sbam”
Sì, non avrebbe mai dimenticato il rumore della porta che si richiudeva dopo che lui, in lacrime e disperato, era andato via. Un rumore forte e deciso che sapeva di riscatto perché stavolta era stata lei a chiudere quella porta, anzi a sbarrarla.
Dopo tre anni quell’uomo crudele che l’aveva abbandonata, umiliata e calpestata, aveva bussato di nuovo alla sua porta, anzi l’aveva percossa con forza.
La sua bella Naomi, all’improvviso, aveva svuotato il conto in banca ed era volata in Scozia con un giovane e aitante istruttore di fitness, lasciandolo senza un soldo, pieno di debiti e con un bambino piccolo. Dopo tre anni di assenza, come se non fosse successo niente, esigeva di tornare a casa, pretendeva che fossero ancora una famiglia per il bene di Giulio, suo figlio.
Sì, non avrebbe mai dimenticato il suo aspetto dimesso, gli occhi arrossati di chi ha pianto per giorni, la barba incolta e la sua voce implorante rotta dai singhiozzi.
Non una parola di perdono o di pentimento, però, per il dolore che aveva causato a lei e Greta. Finalmente Bianca aveva capito che dietro quegli occhi verdi che aveva tanto amato si nascondeva un essere egoista, insensibile e bugiardo.
Filippo non era cambiato nel tempo, era lei che non si era mai accorta chi fosse realmente, lo aveva idealizzato così tanto da non essere in grado di vedere com’era davvero. L’immagine di perfezione nella sua mente l’aveva indotta a concentrarsi sulle sue luci e a tralasciare le ombre che ora, finalmente, era riuscita a vedere.
Sì, non avrebbe mai dimenticato le poche parole che gli aveva detto mentre richiudeva la porta, parole che avevano un dolce sapore di sollievo, di liberazione e di equilibrio. “Sei abbastanza grande per cavartela da solo… Come è giusta la vita…Adesso sai cosa si prova… Sì, adesso lo sai…
“Sbam”
E poi un sorriso e poi un sospiro e poi la luce.
Non provava rabbia, né rancore, né compassione, non provava niente per lui.

Mentre guardava la pioggia, ricordò una frase che aveva letto da qualche parte “La vita è un viaggio e ognuno di noi ha una sua strada da seguire. Non tutte le persone che abbiamo conosciuto o amato saranno sempre sulla nostra stessa via.”
Filippo era andato dall’altra parte della strada; era il passato che non le apparteneva più.
C’era Luca ora che camminava lungo la sua via; il suo presente.
Adesso lei aveva una nuova storia da scrivere; una storia in cui avrebbe corso il rischio di ferire e di essere ferita, di amare e di essere amata, ma l’avrebbe vissuta con tutto il suo cuore, ogni giorno, senza mai dimenticarsi di sé stessa. Era questa la lezione che aveva imparato: amare non significa eclissarsi nell’ombra dell’altro, come aveva fatto lei per tanti anni, amare è un atto di coraggio, è donarsi agli altri senza dimenticare di donare anche a noi stessi ciò di cui abbiamo bisogno e meritiamo.
Si guardò intorno, c’era un silenzio sospeso nella stanza e avvertì nell’aria tutto il dolore del passato che era stato sparso e che si era riversato tra le cose.
Anche se fuori pioveva aprì la finestra come a voler far uscire quell’aria gravosa.
Respirò profondamente l’aria fredda e umida, ma vivificante; avvertì quel respiro fresco penetrare in profondità nel petto, rischiarare il cervello e portare vigore al suo corpo. Anche se fuori tutto era avvolto dal grigiore e dalla malinconia dell’autunno, sapeva che la sua anima abbondava di tutti i colori della vita e dell’amore.




Il segreto dell’appartamento 208

Ero appena arrivato a Londra e il mio parabrezza aveva già iniziato a riempirsi di pioggia. L’appartamento era situato a Kensington, uno dei quartieri più chic della città. Per alcune settimane avrei dovuto usufruire del suddetto in veste di legale di un importante membro del Parlamento europeo. Farah, una donna di origine irachena sulla sessantina d’anni, si sarebbe occupata della casa fino alla fine del mio soggiorno. L’ambiente era caldo e accogliente a differenza del clima che mi si era presentato. Il pavimento era in pregiato parquet, con alcuni tappeti persiani che padroneggiavano nel soggiorno e nello studio, dove c’era una libreria imponente. Farah si offrì di prepararmi la cena prima che finisse il turno, il mio istinto fu quello di accettare, ma poi decisi di cenare in un ristorante che avevo scorto sulla strada. Presi l’ombrello e mi avviai verso il ristorante, mentre la pioggia picchiettava sui vetri delle macchine, una donna armata di un ombrello color ruggine mi venne completamente addosso.

«Mi scusi, sono scivolata» la guardai e per poco non rimasi folgorato da tanta bellezza: una tempesta di riccioli ramati incorniciavano due occhi smeraldo sulla pelle diafana. Tossii e tentai di mettermi a posto la giacca: «Non fa niente. Mi chiamo James Holden» i suoi occhioni penetrarono nei miei, come se volessero studiarmi. «Mi chiamo Lilli»

«Sto andando a cenare in quel ristorantino laggiù, le andrebbe di farmi compagnia, sempre che non abbia un marito geloso e violento».

La donna scoppiò a ridere, mettendo in risalto una dentatura bianchissima: «Sono abbastanza affamata, per cui accetto volentieri. Fortunatamente non ho marito e di conseguenza nemmeno violento». Lilli non era solo bella: era intelligente, colta, elegante, aveva tutto ciò che serve a catturare l’attenzione di un uomo. All’interno del ristorante non c’era uomo o donna che non la notasse. Dopo cena mi offrii di accompagnarla a casa, con mia grande sorpresa abitava due palazzi dopo il mio.

«Sono stata benissimo, ti andrebbe di salire?». Allentai la cravatta, una donna bellissima che mi chiedeva di salire a casa sua, doveva essere la mia giornata fortunata. Mezz’ora dopo ero con le labbra incollate su quelle di Lilli, in uno splendido letto, avvolto in un piumone rosso fuoco. Fu così che iniziai la mia conoscenza con la donna più enigmatica che avessi mai conosciuto. Difficilmente riuscivamo a vederci la mattina, un po’ per i miei impegni lavorativi e un po’ perché al sorgere del sole lei spariva. La settimana prima di partire, mi convinsi che avrei voluto continuare a frequentarla, avevo preso una bella cotta, mi sentivo un adolescente alle prime armi. Una notte tempestata di fulmini e tuoni notai qualcosa di strano: i suoi canini erano leggermente affilati. Il temporale continuò fino alla mattina, ragione per cui Lilli non andò via. Alle otto in punto arrivò Farah, lei aveva le chiavi di casa, il suo viso diventò madido e pallido quando si trovò davanti Lilli che faceva colazione in sala da pranzo. Passammo l’intero pomeriggio in giro per Londra, fino a quando mi fermai davanti alla cattedrale di Westminster. «Entriamo! È da tanto tempo che desidero visitarla, ma le rare volte in cui sono a Londra non riesco ». Il volto di Lilli si scurì, un velo di tristezza attraversò il suo viso: «James entra tu, io non voglio entrare, là sono cattivi con me!». Le presi il volto tra le mani e la baciai sulla sue bellissime labbra carnose: «Mi dispiace, chi è stato cattivo con te? Tesoro, se a te non và, per me va bene, ci verrò un’altra volta», finalmente tornò a sorridere. La sera mangiammo nel ristorante dove l’avevo conosciuta. All’uscita dal locale, un uomo era davanti a un portone che picchiava una giovane donna: «Maledetta puttana, ora ti faccio vedere io». La donna si accovacciò per terra, mentre questo la riempiva di calci e pugni. Preso dalla rabbia mi avvicinai a quest’ultimo e gli mollai un destro sul naso facendolo sanguinare. «E tu chi sei? È la mia serva, fatti gli affari tuoi». A quelle parole incominciai a picchiarlo pesantemente, fino a quando lo costrinsi a chiedere scusa a quella povera innocente. La donna mi ringraziò, poi si avvicinò a Lilli che dalla borsetta prese dei fazzolettini per medicarla: «Signora, non è possibile!». La donna le baciò le mani, Lilli era in evidente stato d’imbarazzo, chiamammo un taxi e la facemmo riportare a casa. Appena entrati nel mio appartamento le domandai dello strano comportamento della donna, ma lei con aria non curante mi rispose che quest’ultima l’aveva confusa con qualcun’altra. Passammo tutta la notte nel mio letto, tra baci e carezze, mi addormentai come un bambino tra le sue braccia. Mi svegliai nel cuore della notte, la trovai china sul mio petto con il volto umido, appena si accorse della mia presenza, in modo surreale, caddi in un sonno profondo. L’indomani mattina mi svegliai con un cerchio alla testa, entrai in sala da pranzo e trovai Farah con un enorme rosario tra le mani: «Ma che stai facendo?». La donna mormorava strane preghiere nella sua lingua, poi finalmente mi rispose: «Signore, deve correre subito in chiesa a farsi benedire! Subito!» .

Dalla borsa prese una boccetta a forma di santo e mi buttò il suo contenuto addosso. «Ma vuoi smetterla! Cos’è questa storia e soprattutto Lilli dov’è?». Farah mi prese per mano e mi condusse davanti all’appartamento che credevo fosse di Lilli. I pompieri stavano spegnendo un incendio, le mie gambe iniziarono a tremare, pregai con tutto me stesso che non le fosse accaduto nulla. Chiesi subito informazioni a un giovane pompiere: «Appartamento? Ma no, questa è la casa della contessa Duprè, lei non ci vive più da anni, delle giovani incoscienti la utilizzano per fare cose strane, non so dirle… A qualcuna di loro è sfuggita la situazione e così hanno creato un incendio».

«Chi sono queste giovani? È sicuro che la contessa non sia più qui?»

«Sicurissimo, ha cento anni. Pare viva da anni a Parigi, nessuno la vede più da secoli. Le giovani mi pare si facciano chiamare… Le figlie di Lilith». Scossi la testa e tornai nel mio appartamento insieme a Farah. Per tutta la settimana pensai a Lilith, avevo condotto varie ricerche e tutte mi davano conferma che la donna che era stata tra le mie braccia, fosse il demone mitologico. La sera prima di partire mi affacciai alla finestra, un gufo bianco si affacciò sul davanzale del mio balcone, tra le zampe aveva una busta. Come un automa la presi e ne estrassi il contenuto: “Quando ti ho incontrato ho pensato subito a una bella avventura, un’avventura che avrei potuto concludere uccidendoti. Un uomo ricco e potente che non disdegna le belle donne usandole come oggetto del piacere, ma questo non sei tu. Mi hai dimostrato, salvando quella donna, il rispetto che hai per coloro che donano la vita. PS a quel bastardo ci ho pensato anch’io: è morto mentre guidava la sua potente Lamborghini. Non è un addio, ma un arrivederci, continua a essere quello che sei”. Invece di tornare a New York, la mia efficientissima segreteria riuscì a prenotarmi un volo per Parigi, avevo una gran voglia di conoscere la contessa Duprè.

A

Brividi ad Atene

La spiaggia era affollata, circondata da un manto di stelle, le luci del mio albergo illuminavano, appena, lo strato di sabbia bianchissima. La terrazza affacciava sopra il mar Egeo. Guardai la foto di Diego, una lacrima scese lentamente sul mio viso: era morto in un incidente sull’autostrada che lo avrebbe portato a Roma. Ricordo che ero arrabbiatissima con lui per il suo essere sempre in ritardo. Telefonai e il suo cellulare risultò spento, e questo mi fece arrabbiare ancora di più, fino a quando una pattuglia dei carabinieri mi chiamò per darmi la tragica notizia. Quella notte la mia vita si spense, amici, carriera, nulla aveva più un senso. L’anno successivo ero sopra un aereo diretta ad Atene in compagnia di Sonia, la mia collega. Presi una sigaretta dalla borsetta e iniziai a ispirarla: «Potrei chiederle di spegnerla? Sa sono allergico al fumo» due grandi occhi azzurri come l’oceano, incorniciati da riccioli d’oro sopra una testa perfetta, mi guardavano con delicatezza. Imbarazzata mi scusai e aggiunsi: «Credo che all’aperto si possa fumare» l’uomo mi sorrise, mettendo in evidenza una splendida fossetta sotto il mento. «Ha ragione, ma non mi va di rientrare nella mia stanza, qui si sta così bene, oltretutto questa terrazza gode di un’ottima vista». La camicia bianca di lino nascondeva la pelle bronzata da dove si intravedeva la muscolatura perfetta delle braccia. «Mi chiamo Febo, e lei come si chiama?»

«Mara».

«Non ho ancora cenato, le andrebbe di farmi compagnia?» guardai l’orologio e mi accorsi, che in effetti, era ora di cena, per cui accettai. Il cameriere ci servì del buon vino locale, accompagnato dalle specialità del posto. Febo si rivelò una compagnia molto piacevole. Chiacchierammo fino a mezzanotte: mi raccontò della sua attività di psicologo che svolgeva a Creta, e di come alcuni dei suoi clienti fossero capaci di affrontare le difficoltà della vita. Era magnetico, mi stupii della sua pacatezza, mi sentii subito a mio agio, tanto da raccontargli la profonda perdita che avevo affrontato e come il mio lavoro da architetto mi avesse dato la forza di andare avanti. Tra due chiacchiere e del buon vino, mi accorsi che il tempo era volato, erano le tre di notte passate, ci guardammo a lungo negli occhi prima di salutarci. «Domani dopo il tramonto sarò su questa terrazza, mi piacerebbe vederti Mara»

«Dopo il tramonto sarò qui».

Il giorno dopo mentre ci godevamo il caldo sole di agosto, raccontai di quell’incontro a Sonia. «Wow! Quindi lo rivedrai stasera? Strano che non ti abbia chiesto il numero di telefono»

«Forse se ne sarà dimenticato».

Alle otto era sopra la terrazza, Febo era di spalla con il volto verso l’orizzonte, la sua pelle bronzata brillava sotto la camicia di lino celeste. Era bello, non avevo mai visto un uomo così perfetto se non al cinema o su qualche rivista patinata. Si voltò e mi sorrise, mostrando una dentatura bianchissima, per un momento mi sentii quasi in colpa per le sensazioni che questo sconosciuto mi stava provocando. «Sei bellissima». Quel complimento inaspettato mi fece sobbalzare il cuore, abbassai lo sguardo imbarazzata. Cenammo come due vecchi amici che si rincontrano dopo anni. A fine serata decidemmo di fare una passeggiata nel centro di Atene. C’era una fiera con tante bancarelle, ci fermammo davanti a un artigiano che vendeva bracciali di ogni tipo, una coppia di bracciali raffigurava un cuore con al centro la luna, lo acquistammo e lo indossammo, felici come due bambini che ricevono un giocattolo nuovo. Febo si rivelò un ottimo Cicerone, conosceva la Grecia meglio di chiunque altro. Le lancette dell’orologio correvano, mentre io avrei dato qualsiasi cosa pur di fermarle. Il cielo iniziò a coprirsi di nuvoloni, Febo mi prese per mano, corremmo fino a quando ci ritrovammo in una viuzza. Ci fermammo davanti a un portone azzurro, incastonato in un lussuoso palazzo con le colonne bianche. «Mi piacerebbe farti entrare, questa è la casa di famiglia, anche se io di solito preferisco alloggiare nel resort». Lo guardai e accettai il suo invito. L’appartamento era moderno e accogliente, una sfilza di libri sulle mensole del soggiorno sottolineava che Febo fosse un gran lettore. Anch’io adoravo i libri, per cui mi avvicinai subito alla libreria: tutti i volumi trattavano la mitologia greca. «Adoro la mitologia, è il fulcro della storia del mio paese» mi voltai, era alle mie spalle, come una calamita mi ritrovai tra le sue braccia. Mi baciò fino a quando diventammo cielo e terra, fino a quando i miei occhi si persero nell’azzurro dei suoi. Mi ritrovai immersa in un vortice di passione, per la prima volta il mio spirito si sentiva libero, libero di trascinarsi in quello che la gente più comunemente chiama: un colpo di fulmine. L’indomani mattina fui svegliata dal canto degli uccellini, era da tanto tempo che non dormivo beatamente. Febo arrivò nella stanza con un vassoio pieno di brioche e una tazza di caffè fumante. «Stasera vorrei portarti a fare un giro in barca, il proprietario del resort è un mio amico, mi presterà il suo yacht. Dopo il tramonto ti aspetterò sopra la terrazza». Tornata al resort, mi sentii un’altra persona: non ero più la tristissima Mara arrivata due giorni prima, ero Mara che ancora riusciva ad emozionarsi. Mi guardai allo specchio: avevo trentacinque anni eppure mi sentivo emozionata come una sedicenne alle prese con la prima cotta. Aprii la busta e ammirai l’abito stile impero che Febo mi aveva regalato, era di ottima manifattura, la seta era purissima, mia madre per anni aveva lavorato come sarta in un atelier di uno stilista famoso, per cui era solita portare il suo lavoro anche a casa. Mi aveva raccomandato di indossarlo per il nostro incontro serale. Ero rimasta lusingata da quel gesto e anche un po’ stranita: perché un uomo che conoscevo a malapena mi avesse donato un abito così costoso, per giunta, aveva anche azzeccato la taglia. La sera ci ritrovammo sulla solita terrazza, puntuale dopo il tramonto, mi venne a prendere con Diacono, il marinaio delle imbarcazioni del resort, lo conoscevo bene, visto che qualche giorno prima aveva accompagnato me e Sonia a fare alcune escursioni. Salita sulla barca ammirai il panorama che quella terra ricca di fascino offriva, con Febo, che mi teneva le braccia sulla vita. Attraversammo un velo di nebbia, per poi trovarci davanti a un isolotto pieno di luci. «Mia sorella ha una villa su quest’isola, stasera festeggia insieme ai suoi amici il suo compleanno». Diventai subito rossa: «Non vorrei essere di troppo in una festa di famiglia». Febo mi sorrise stringendomi ancora di più: «Non preoccuparti, ci saranno molti nostri amici, e comunque, mi farebbe davvero piacere fartela conoscere». Ormeggiammo sul isola, una donna vestita con abiti tradizionali ci venne incontro: «Bene arrivato signore. Tanti auguri di buon compleanno». Guardai Febo con gli occhi sbarrati: «Scusa, non mi avevi detto che era il compleanno di tua sorella?»

«Ho solo dimenticato di dirti che siamo gemelli ». Mi prese per mano e insieme scivolammo al centro dell’isola, dove una folla di gente vestita con abiti tradizionali locali, si divertiva a ballare. Non mi ero mai divertita tanto in vita mia. Una gigantesca luna piena illuminava una serie di case lattiginose, arricchite da colonne con capitelli fregiati. Allo scoccare della mezzanotte apparve Diana, la sorella di Febo: una donna bellissima dai capelli corvini, che ci prese per mano e ci portò al centro della folla, dove nel frattempo era stato allestito uno spazio con bottiglie di champagne, torte e pasticceria varie. Dopo aver ringraziato tutti i presenti, i fuochi d’artificio impazzarono sul cielo stellato, creando bellissime figure dello zodiaco, i miei occhi non avevano mai visto una festa più bella. Gli amici di Febo si divertivano molto, ognuno di loro emanava spensieratezza. Alle cinque del mattino salutammo tutti e ci dirigemmo verso la spiaggia: «Ora dobbiamo andare, sono stato benissimo con te, anche troppo. Non mi succedeva una cosa simile da anni». La voce di Febo conteneva un velo di tristezza. Tirò fuori dalla tasca una pietra di heliolite e me la posò sul palmo della mano: «Questo è un portafortuna, sono anni che lo custodisco. Ma questa volta preferisco che sia tu a conservarlo . Se dovesse tornarmi indietro, sarà perché hai deciso di stare con me». I suoi occhi adesso erano umidi lo guardai per quanto mi fu possibile, da quando lo avevo incontrato, non ero mai riuscita a guardarlo a lungo, la sua bellezza era come se mi accecasse. «Non è un addio vero? Non so se sono pronta a vivere una storia a distanza, sono vedova da solo un anno».

Per tutto il tragitto restammo in silenzio, fino a quando Febo mi accompagnò nella mia stanza. Mi baciò, non fu un semplice bacio, fu un diluvio di emozioni che mi coprirono come la lava di un vulcano.

Alle nove la sveglia mi avvisò che era ora di alzarmi: alle dieci in punto io e Sonia, insieme ad altri turisti avremmo dovuto visitare il museo dell’olimpo: questo museo era stato inaugurato qualche anno prima da una scultrice ateniese. Il pullman del resort si fermò vicino al centro. Percorremmo il centro a piedi, proprio come quella notte in cui Febo era stato mio. La testa iniziò a girarmi, la guida si fermò di fronte a un palazzo: «Benvenuti al museo dell’olimpo». Non è possibile, pensai, mi trovavo di fronte all’appartamento di Febo. Quando entrai vi ritrovai tutt’altro che un appartamento: statue che raffiguravano le divinità e le storie tramandate dai grandi scrittori del sesto secolo. Impallidii nel constatare che ognuna di quelle statue aveva il volto delle donne e gli uomini che avevo incontrato la sera prima. Giunsi davanti a una delle statue più imponenti che rappresentava il Dio del sole e con mio grande stupore mi accorsi che al polso aveva lo stesso braccialetto che io e Febo avevamo acquistato al mercatino. Guardai la statua e non ebbi alcun dubbio: Apollo mi aveva tirato un brutto scherzo. «Mara ti senti bene? » «Sì, scusami Sonia ho dormito così poco che adesso mi sento un tantino stanca». Sonia andò a fotografare una statua di Zeus, in quel momento si avvicinò una donna: «Ho visto come guardava quella statua: sa io qui ci torno spesso da quando hanno aperto questo posto, e sa perché? Anni fa conobbi un uomo si chiamava Bacco, non era un uomo qualunque… E per questo ebbi paura di seguirlo. Ora non faccio altro che pensare come sarebbe stata la mia vita con lui, la prego non faccia il mio stesso errore». Corsi da Sonia: «Devo andare, ho un appuntamento importante». Corsi verso la fermata dei taxi, il cuore mi scalpitava nel petto. Arrivata al resort chiesi subito di Diacono, il marinaio. Fortunatamente lo trovai sulla spiaggia, mentre faceva scendere da un motoscafo una coppia di turisti. «Buongiorno signora Scalfari» «Diacono non c’è tempo per le formalità, devi portarmi subito su quell’isola» «Di quale isola sta parlando?» «Ieri sera hai portato me e Febo su un’isola immersa tra le nebbie» «Non conosco nessun Febo. Si sta sbagliando, ieri non ero in servizio». Sospirai presa dall’amarezza, ebbi subito un’illuminazione: aprii la borsa e presi la pietra. «Portami da lui, ti prego!». L’uomo mi guardò dritto negli occhi, il suo sguardo era cambiato: «Una volta arrivata sull’olimpo non potrà più tornare indietro. Al resort dovrò raccontare di un’incidente: tutti la crederanno morta. Per poter tornare sulla terra dovrà assumere una nuova identità, non potrà vedere più ne amici e parenti, altrimenti metterebbe in serio pericolo l’intera esistenza degli DEI. È disposta a tutto questo?». Un brivido mi corse lungo la schiena, al mondo a parte pochi amici non avevo più nessuno, se non un fratello che viveva in Germania. «Portami da lui!». Guardai lentamente la costa sparire, le gambe mi tremavano, non sapevo cosa la mia nuova vita mi riservasse, tutto questo iniziò a portarmi ansia. All’improvviso in mezzo alla nebbia bianca vidi l’isola, scorsi immediatamente la sua figura: era vestito di bianco, con la camicia bianca di lino aperta, mi stava aspettando. Tutti i miei dubbi di colpo sparirono. Scesi subito dall’imbarcazione e corsi verso di lui che mi aspettava con le braccia spalancate e un sorriso malizioso. «Ti stavo aspettando mia regina». Le nostre labbra si unirono in un lungo bacio che ci avrebbe unito per l’eternità.

Libera di essere te stessa

Sentiti libera di volare con i colori belli che la tua anima custodisce.

Sentiti libera di ballare sopra la sabbia bagnata mentre la pioggia bacia i tuoi capelli.

Sentiti libera di mostrare il tuo corpo, perché Dio ne ha fatto un’opera d’arte.

Sentiti libera di educare i tuoi figli senza che nessuno ti giudichi: insegna loro l’amore e il rispetto.

Sentiti libera di amare: uomo, donna, bianco o nero sii padrona dei tuoi sentimenti, non farti incatenare dai pregiudizi.

Sentiti libera di scegliere e non di essere scelta.

Sentiti libera di abbandonare la strada vecchia per quella nuova.

Credi in te

Credi in te anche se vivi nella tormenta.

Credi in te perché nessuno può salvarti

Credi in te perché solo tu puoi sconfiggere i tuoi fantasmi

Credi in te perché sei il miglior amico di te stesso.

Credi in te perché il tuo dolore esce dal cuore

Credi in te perché chi ti ama ti da la forza di farlo

Credi nei sogni perché sono coloro che ti danno risposte

Credi nel destino perché da quello non puoi scappare

Sarai splendore

Notti in tempesta dove ogni tua carezza mi porta tenerezza

E sarai vento d’estate, quello che ti scompiglia i capelli e che ti fa sentire libera.

Sarai il profumo di una notte tempestata di stelle, immersa in lenzuola candide e profumate.

Sarai la musica di un violino: sotto un cielo luminoso, diretto dalla luna.

Sarai il fuoco di un camino che arde legna d’inverno.

Sarai il mio segreto, uno di quelli che custodisci gelosamente.

Sarai la voglia di vivere, costellata da battiti di mani e grida di ammirazione.

Sarai… semplicemente te stessa, nell’abbraccio di un lungo addio, nei sorrisi di chi ti apprezza e nei rimpianti di chi non ti ha saputo ascoltare.

Amante mio mare

Una coccola, una carezza, lo spumeggiare delle onde scivola sopra le bianche scogliere.

“Guardami! Sono forza, sono vita, sono una delle opere d’arte che la terra ti ha regalato”.

Poi tace e ti culla, come un padre tenero che abbraccia i suoi figli.

Corre, si arresta, mostrandosi in tutta la sua potenza come un amante vanitoso.

La luna lo osserva, estasiata dalla sua bellezza, gelosa della pioggia che avidamente ne diventa parte di esso.

Le stelle lo guardano, danzano al suono della sua musica, lo applaudono ad ogni sua esibizione.

“Non sono per tutti, sono per coloro che ascoltano la mia voce e che dimostrano di amarmi”

Le coste bramano smaniose per ogni sua carezza e così che Nettuno lo espande in tutta la sua bellezza

L’angelo innamorato

Conosco la perfezione quando si illuminano i tuoi occhi.

I tramonti più belli li vivo attraverso la tua anima: fonte di saggezza mescolata da un fiume di tenerezza.

Allargo le mie ali per proteggermi dalla tua luce che mi acceca, mi scalda, mi brucia e mi consuma

Distesa sopra un letto di petali d’argento dove la magia prende il posto della malinconia.

Soli, l’una di fronte all’altro, ci guardiamo: ubriachi d’amore, rapiti dalla passione.

Apro le mie ali grandi per concedermi il volo in perfetta sintonia con il vento che non vede l’ora di portarmi via.

Resto a guardarti ancora per un minuto, ti amerò senza guardarti, affinché tu possa vivere protetto dal mio amore.

Quello che eravamo

Questa poesia narra la storia di una coppia, che a un certo punto della loro vita, si perde.

Lei che ancora crede in questa storia, lo aiuterà a credere ancora nel loro amore.

Non guardare ciò che siamo adesso, guarda quello che eravamo.

Frammenti di un’unica stella, gocce di una sola sorgente, raggi di un unico sole.

Ricordi come volavamo? Eravamo come farfalle libere verso l’orizzonte.

Una volta il futuro ci aiutava a raggiungere i nostri obbiettivi, adesso ci fa tanta paura.

Guardami, sono colei a cui hai giurato amore, non guardarmi così, non sono un’estranea.

Non chiedermi dove abbiamo sbagliato, a volte un fulmine può invadere un cielo sereno.

Noi che eravamo, noi che siamo, noi che ancora abbiamo la forza di amare.

Amore notturno

Il tuo cuore mi appartiene come un soffice manto notturno.

Abbracciami, bruciami con i tuoi baci e abbandonami nei tuoi pensieri, affinché io ne resti viva.

Preludio  dell’infinito,  oscilli tra le mie braccia che ti accolgono come una candida coperta.

Madida, mi tormento, racchiusa da una coltre di pensieri che lentamente scivolano via.

Ricchezza infinita i tuoi occhi, che accarezzano lentamente i miei vestiti.

Spariscono piano piano le luci della notte, mentre i primi bagliori dell’alba ci accolgono in questa danza d’amore infinito.